Talvolta la combinazione dei risultati ottenuti attraverso ricerche scientifiche che perseguono finalità diverse può offrire spunti piuttosto interessanti.
Nel mese di gennaio del corrente anno sul n. 1 della rivista “L’Astrofilo” era pubblicato un interessante resoconto riguardante la ricerca condotta da un team di astronomi messicani, guidati da Mauricio Reyes-Ruiz, circa le probabilità che frammenti della crosta terrestre, eietti a seguito di ipotetici impatti cometari o asteroidali, raggiungessero altri corpi del sistema solare [1] .
Confesso che, pur avvezzo all’idea della “panspermia” e trovando affascinante la possibilità che la vita sulla Terra sia iniziata ad opera dell’inseminazione di batteri ospitati su rocce vaganti nell’abisso cosmico [2], non avevo mai considerato a sufficienza che, sotto determinate condizioni, anche rocce terrestri brulicanti di vita organica potessero essere espulse nello spazio esterno e cominciare a vagare sospinte dalle correnti gravitazionali, come nella ben nota canzone di Battiato.
Negli anni ’80 – si leggeva nell’articolo testé menzionato – erano stati approntati dei modelli matematici (non potendo evidentemente il fenomeno essere osservato dal vivo) in grado di spiegare come la perdita di materiale superficiale della crosta terrestre potesse essere facilitata “dalla bassa resistenza opposta dall’atmosfera alla risalita dei frammenti (i cosiddetti “ejecta”) e ciò perché essi vengono a trovarsi, almeno in parte, a fuggire attraverso il “tunnel” scavato nell’atmosfera stessa dal corpo precipitato”.
Sebbene la presenza di un’atmosfera più densa rispetto, per es., a quella marziana o lunare rendesse necessaria una velocità di fuga maggiore, le simulazioni eseguite dimostravano che la caduta di corpi con determinati angoli di impatto poteva generare energie sufficienti ad imprimere ai frammenti eietti adeguate accelerazioni.
Poiché tali eventi sono stati relativamente numerosi nei primi miliardi di anni di esistenza della Terra, anche in periodi in cui forme di vita elementare già brulicavano in ogni dove, lo studio a cui accennava si era posto il problema se colonie batteriche potevano sopravvivere, e quanto, all’interno di siffatti meteoriti terrestri. Le implicazioni di tale ragionamento sono notevoli ed eccitanti: se tali meteoriti fossero caduti su altro pianeta del sistema solare, per esempio Marte (che in epoche passate doveva presentare condizioni ben più favorevoli alla vita di quanto – apparentemente – non faccia oggi), i batteri terrestri avrebbero potuto adattarsi al nuovo ambiente e dare vita ad un vero e proprio processo di terraforming.
In teoria, gli ostacoli al compimento di un transito interplanetario da parte dei microbi non sono pochi o irrilevanti: oltre all’impatto iniziale ed a quello finale, essi dovrebbero sopravvivere ad un ambiente ostile, privo di ossigeno ed esposto ai raggi cosmici. Ma l’esistenza di diverse specie di batteri anaerobi o di autentiche meraviglie quale il deinococcus radiodurans [3] rende questo genere di problemi superabili.
Semmai impensieriva la considerazione che i frammenti terrestri avrebbero potuto vagare nello spazio interplanetario molto a lungo, più a lungo del tempo medio di sopravvivenza dei batteri: a questo riguardo l’opinione più accreditata è che una colonia di batteri, se l’ambiente lo consente, possa proliferare in un lasso di tempo compreso fra 3.000 e 30.000 anni.
Tuttavia una recente scoperta, avvenuta nell’ambito di un progetto di ricerca del tutto indipendente rispetto alle indagini di Reyes-Ruiz e del suo team, ha messo in discussione tali parametri: infatti una spedizione guidata da Hans Roy, dell’Università danese di Aarhus, analizzando campioni di sedimenti prelevati attraverso carotaggi eseguiti sotto i fondali dell’Oceano Pacifico, ha rinvenuto antichissimi batteri.
Fossili, vi chiederete? No, vivi, vegeti e sopravvissuti per un tempo inconcepibilmente lungo (ben 86 milioni di anni!) grazie alla presenza di piccole quantità di ossigeno, mediante un metabolismo proprio delle più antiche forme di vita procariote: “Sono le prime forme di vita microbica con respirazione aerobica, che per vivere utilizzano l’ossidazione del carbonio. Altri tipi di batteri antichi sono sopravvissuti con un diverso metabolismo” ha commentato Bianca Colonna, microbiologa dell’Università di Roma La Sapienza [4].
Il ciclo di vita di tali batteri è talmente lento che essi variano la loro massa ad un ritmo compreso tra le centinaia e le migliaia di anni.
Dunque, anche in condizioni di scarso nutrimento ed assenza di ossigeno in forma libera (tale essendo lo stato dei sedimenti al disotto dei fondali oceanici), i batteri possono avere un’esistenza che si snoda lungo intere ere geologiche!
Diviene chiaro, quindi, che i transiti interplanetari degli “eiecta” con inglobate colonie batteriche sono teoricamente in grado di condurre dei batteri vivi dalla Terra ad altri pianeti del sistema solare.
Ipotesi rafforzata proprio dalla recente ricerca degli astronomi messicani, il cui scopo era quello di verificare, alla luce delle più avanzate capacità di calcolo dei computers di ultima generazione, quante possibilità vi erano che i meteoriti terrestri potessero impattare con un altro corpo planetario.

Un meteorite terrestre su Marte?

L’inserimento di un numero maggiore di variabili ha permesso di calcolare con più precisione le ipotizzabili traiettorie di codesti meteoriti e si è cosi concluso che, rispetto ai precedenti modelli, le possibilità di ricaduta dei frammenti su Venere sono dieci volte superiori, addirittura cento volte superiori nel caso di Marte! Inoltre, per la prima volta, sono emerse serie evidenze che i frammenti in questione possano avere raggiunto persino il sistema satellitare di Giove (con Ganimede ed Europa in testa).
Considerando velocità di fuga comprese tra gli 11,22 ed i 16,40 km/s si è scoperto che – in prossimità del limite inferiore, su valori superiori di appena l’1% alla velocità di fuga dalla Terra – gli “eiecta” ricadono sul nostro pianeta, o in minima parte finiscono sulla Luna o su Venere. Ma, già con una velocità pari a 11,70 km/s o superiore, diviene Marte il bersaglio privilegiato (con il sistema gioviano, sui valori vicini ai 14,7 km/s). Singolarmente, oltre la soglia dei 16,40 km/s il Sole resta l’unico attrattore.

Il meteorite marziano ALH84001

Alla luce di tali considerazioni, ci si deve forse sorprendere di avere sempre considerato i rapporti Terra – Marte a senso unico, utilizzando i meteoriti di sicura origine marziana (come il ben noto ALH84001 [5]) nel tentativo di trovare su di essi tracce di una (passata) vita microbica, trascurando per converso la possibilità che meteoriti terrestri possano avere raggiunto Marte in epoche lontane dando vita ad una nuova linea evolutiva.
I rover Spirit ed Opportunity hanno già, peraltro, individuato sulla superficie marziana quelli che sembrano essere meteoriti: sarebbe davvero eccitante se il rover Curiosity, prossimo ospite del nostro vicino, potesse acclarare la provenienza terrestre di tali meteoriti. In tal caso, la sempre più probabile vita microbica marziana dovrebbe confrontarsi con l’eventualità che questi batteri siano giunti colà dalla Terra, a bordo di bitorzoluti pezzi di roccia, ben prima che le scimmie discendessero dagli alberi.
Appare quindi chiaro che lo scambio di materia organica tra pianeti del medesimo sistema solare si configura sempre meno materia per narrativa fantascientifica e sempre più oggetto di studi scientifici: dagli effetti combinati delle simulazioni di Mauricio Reyes-Ruiz e della scoperta di Hans Roy possono schiudersi nuovi orizzonti nella nostra comprensione dei meccanismi di diffusione della vita attraverso lo spazio.

Note

[1] Batteri terrestri su altri pianeti?, ne L’Astrofilo, n. 1, gennaio 2012, Astropublishing, 18.

[2] La panspermia è una teoria scientifica che suggerisce che i semi della vita (in senso ovviamente figurato) siano sparsi per l’Universo, e che la vita sulla Terra sia iniziata con l’arrivo di detti semi e il loro sviluppo. E’ implicito quindi che ciò possa accadere anche su molti altri pianeti. Per estensione, semi si potrebbero considerare anche semplici molecole organiche” – voce Panspermia di Wikipedia, all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Panspermia.

[3] Deinoccocus radiodurans (Brooks & Murray, 1981) è un batterio estremofilo, uno degli organismi più radioresistenti conosciuti al mondo. Si tratta di una specie particolare, in grado di resistere a dosi di radiazioni di gran lunga superiori a quelle necessarie per uccidere un qualsiasi animale. Il batterio, infatti, è capace di riassemblare la struttura funzionale dei suoi cromosomi dopo che questi ultimi sono stati distrutti dal trattamento radioattivo. E’, inoltre, in grado di sopravvivere a condizioni estreme di freddo, disidratazione, vuoto e acidità: per questo motivo è considerato anche un batterio poliestremofilo ed è stato inserito nel Guinness dei primati come la “forma di vita più resistente alle radiazioni al mondo” – voce Deinococcus Radiodurans di Wikipedia, all’indirizzo http://it.wikipedia.org/wiki/Deinococcus_radiodurans.

[4] Sepolti per 86 milioni di anni e sopravvissuti, Canale Scienza&Tecnica dell’Agenzia Ansa, 18.05.2012, all’indirizzo http://www.ansa.it/web/notizie/specializzati/scienza/2012/05/18/Sepolti-86-milioni-anni-sopravvissuti.

[5] ALH84001. Storia di un meteorite incompreso di Davide Sacquegna, sul sito dell’UAI, all’indirizzo http://astrocultura.uai.it/avvenimenti/meteorite.htm.

Di Gaetano Anaclerio

Avvocato civilista, nato il 4 giugno 1964, esercita la professione a Bari dal 1992. Da sempre appassionato di ufologia ed enigmi archeologici, è socio del Centro Ufologico Nazionale dal 2001 ed attualmente, nella stessa organizzazione, ricopre il ruolo di responsabile della Sezione Provinciale di Bari e di componente della Commissione per gli Aspetti Giuridici. Insieme al Dott. Mauro Panzera è autore della monografia "Il trattamento dei dati personali in ufologia" edita nel 2004.

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