4. Le Canarie nell’antichità
Si ritiene che i Greci conoscessero le isole fin dai primordi della loro civiltà. Sembra infatti che la loro geografia mitica collocasse colà il Giardino delle Esperidi[1]: è noto che in tale orto, posto alle pendici del monte Atlante, dove il carro del Sole terminava la propria corsa ogni giorno, crescesse un melo dai frutti aurei, donato dalla madre Terra ad Era in occasione delle sue nozze con Zeus e da questa affidato alle Esperidi affinché lo custodissero e lo coltivassero. Sennonché, avendole un giorno sorprese a cogliere i pomi del magico albero, Era vi aveva posto di guardia il drago Ladone che, arrotolatosi al tronco, impediva a chiunque di avvicinarvisi[2].
Per onestà intellettuale bisogna anche dire che la collocazione di tale giardino non era univoca, conoscendo significative differenze nelle varie versioni del mito: talora il Monte Atlante, alle cui pendici esso si trovava, era identificato con una vetta della terra degli Iperborei piuttosto che con il monte dell’antica Mauritania; secondo una certa tradizione, inoltre, le Esperidi vivevano su due isole giacenti dinanzi al promontorio chiamato Corno Occidentale, nell’Esperia etiopica[3].
E’ appena il caso di rilevare come tale descrizione si attagli perfettamente alle isole di Lanzarote e Fuerteventura, le più orientali dell’arcipelago, che si distendono lungo la direttrice Nord-Est Sud-Ovest quasi parallelamente alle coste del Marocco, da cui distano poco più di un centinaio di chilometri; e che, proprio di fronte a Fuerteventura, l’Africa sembra protendersi verso l’Oceano in corrispondenza dell’odierno Cap Jubi, presso la città di Tarfaya.
Da non trascurare, ancora, che una delle piante più curiose delle Canarie (di cui è originaria), ed al tempo stesso uno dei simboli delle isole, è – singolarmente – il “drago” (Dracena draco), specie della famiglia delle Liliaceee sopravvissuta all’ultima era glaciale e che può raggiungere la considerevole altezza di venti metri. Questa pianta, ritenuta magica dai Guanci, che riunivano il Consiglio dei Nobili sotto di essa per amministrare la giustizia, produceva una resina che – ossidandosi – assumeva una colorazione rossastra ed era per questo chiamata “sangue di drago”, finendo con l’essere molto ricercata da maghi ed alchimisti medievali[4]; per inciso, nel piccolo centro di Icod de los vinos, sulla costa settentrionale di Tenerife, è possibile ammirare la più grande ed antica Dracena del mondo, dell’età stimata di mille anni.
Che questa singolare e risalente identificazione fra il “drago” ed una pianta celi una qualche antichissima reminiscenza del drago Ladone, che al tronco di un albero era appunto arrotolato? Certamente l’accostamento non è privo di suggestione, comunque stiano le cose.
Oltre all’ubicazione (ancorché non univoca) del Giardino delle Esperidi, gli antichi Greci ponevano nelle Canarie i Campi Elisi, chiamandole per questo anche “Isole Fortunate” o “Isole dei beati”. Nel quarto libro dell’Odissea, Omero – in occasione dell’incontro fra Telemaco e Menelao – scrive:
Ma tu, Menelao, di Giove alunno,
chiuder gli occhi non déi nella nutrice
di cavalli Argo; ché non vuole il fato.
Tu nell’Elisio campo, ed ai confini
manderan della terra i numi eterni,
là ‘ve risiede Radamanto, e scorre
senza cura o pensiero all’uom la vita.
Neve non mai, non lungo verno o pioggia
regna colà; ma di Favonio il dolce
fiato, che sempre l’Oceano invia,
que’ fortunati abitator rinfresca[5]
Nella visione omerica il luogo di riposo degli eroi è pur sempre un luogo di questa Terra, ancorché posto ai confini di essa (per lo meno, di quello che era il mondo allora conosciuto): che non si trattasse di un sito mitico è dimostrato dalle precise indicazioni geo-climatiche dispensate dal poeta, le quali trovano tutte puntuale riscontro nell’arcipelago canario. E’ risaputo infatti che le Canarie, a causa della loro ubicazione nella fascia sub-tropicale, hanno un clima mite tutto l’anno, con una temperatura media di 18° C, beneficiando degli influssi dell’area anticiclonica delle Azzorre. Pertanto esse non conoscono una stagione invernale propriamente detta (donde la loro fortuna turistica) ed anche la pioggia vi è estremamente scarsa, mentre la vegetazione si sostenta attraverso l’umidità oceanica portata dagli Alisei, nel fenomeno noto come “pioggia orizzontale”[6]. Quanto alla neve, se si eccettua la vetta del Teide, essa vi è praticamente sconosciuta. Anche il riferimento a Favonio (o Zefiro) è straordinariamente appropriato, essendo questo – nella cultura omerica – un vento che soffia da settentrione a ponente[7], esattamente come i “trade winds”, i venti oceanici che spirano sulle isole da Nord-Est.
Esiodo[8] dal suo canto le riteneva luogo privilegiato dalla natura, ricolmo di frutti spontanei ed abbondanti, meritata sede di eroi e regno di Crono (il Saturno italico cui è attribuita la costruzione delle ciclopiche mura di numerose città dell’Italia centrale).
Non v’è dubbio dunque che Omero ed Esiodo, nell’VIII secolo a.C., avessero precise nozioni geografiche delle isole e le ritenessero abitate, sicché vi dovevano essere state delle esplorazioni ai loro tempi o anche prima. D’altra parte Diodoro Siculo (storico greco del I secolo a.C.), nella sua “Bibliotecha Historica”, racconta di come i marinai punici, volendo esplorare le coste africane al di là delle Colonne d’Ercole, venissero trascinati da un fortunale su un’isola sconosciuta, ricca di una natura rigogliosa, e di come, diffusasi la notizia della scoperta, anche i Tirreni volessero stabilirvisi, essendone però impediti dai Cartaginesi, che serbavano gelosamente il segreto sulle proprie rotte navali, anche per costituire colà un estremo rifugio qualora Cartagine fosse stata sopraffatta dai propri nemici (si deve però anche aggiungere che il riferimento dello storico ad una tempesta durata molti giorni ed al fatto che le navi fenicie fossero sospinte “al fondo dell’Oceano”, ha indotto diversi studiosi a ritenere che in realtà Diodoro stia parlando di un’ampia regione del continente sudamericano, forse il Brasile). Anche Strabone, geografo greco vissuto all’inizio dell’era cristiana, nella sua “Geographia” sostiene che le isole Esperidi o Fortunate, posizionate non molto lontano dalle coste della Mauritania, siano state scoperte dai Fenici ben prima dei tempi di Omero, i quali ne presero possesso. Resta il dubbio se i Fenici avessero trovato le Canarie già abitate o se invece vi avessero insediato essi stessi i primi coloni (in ogni caso le isole dovrebbero celare evidenze archeologiche di insediamenti risalenti almeno al IX secolo a.C., che ad oggi non sono ancora state ritrovate).
Peraltro l’esplorazione fenicia delle coste africane dell’Atlantico è un dato ormai storicamente acquisito: Plinio il Vecchio[9] ci tramanda la notizia dell’ammiraglio cartaginese Annone che “al tempo della fioritura di Cartagine, compì il periplo da Cadice fino alle frontiere dell’Arabia”. La spedizione fu realmente compiuta intorno al 500 – 450 a.C.: Annone stesso ne scrisse un resoconto in lingua punica, fatto scolpire su una stele esposta nel tempio di Crono a Cartagine e quindi tradotto in greco, nella qual forma è giunto sino a noi col Codice 398 di Heidelberg[10].
Si ritiene tuttavia che Annone non portò realmente a conclusione la circumnavigazione del continente africano, riuscendo solo a giungere sino all’odierna Sierra Leone, prima di tornare indietro per esaurimento delle provviste.
Possiamo ipotizzare che Annone sia stato lo scopritore delle Canarie nell’età antica? La lettura del resoconto della spedizione, pur interessante sotto altri profili, non fornisce risposte a questa domanda. Dopo essere approdati alla foce del fiume Lisso (l’odierno Draa) ed avendo preso con loro alcuni interpreti, scelti fra i pastori lixiti, i Cartaginesi ripresero il mare e navigarono “presso di un deserto [verosimilmente le coste dell’ex Sahara Spagnolo], verso mezzogiorno, per due giornate”. Laddove sarebbe stato sufficiente volgere le prue delle navi a ponente, rispetto alla foce del Lisso, per avvistare dopo un giorno o due l’isola di Lanzarote. A questo punto si deve desumere, in via alternativa, che: a) i Cartaginesi, navigando lungo le coste, siano semplicemente passati oltre le isole Canarie; b) i Cartaginesi, conoscendo l’arcipelago ed avendolo già colonizzato, abbiano privilegiato l’esplorazione dei territori africani sconosciuti più a Sud; c) i Cartaginesi, per le ragioni esposte da Diodoro, intendevano tenere nascosta l’esistenza e la posizione delle isole; d) (meno probabile) il resoconto del viaggio di Annone ci è giunto incompleto in questa parte.
Rimane il fatto che gli storici dell’antichità attribuiscono unanimemente la scoperta delle isole ai marinai punici; da ciò qualcuno conclude che le stesse siano state popolate da coloni libico – berberi in un’epoca imprecisata tra il IX ed il V secolo prima di Cristo. Ancora una volta, però, questa affermazione risulta inconciliabile con la circostanza che tali coloni ignorassero totalmente l’arte della navigazione. Appare forse più plausibile che i marinai punici, scoprendo le isole come gli Spagnoli secoli più tardi, vi abbiano rinvenuto una popolazione autoctona intrattenendo con essa scambi commerciali e trasmettendole elementi della loro cultura.
La prima descrizione di una certa completezza delle isole e dei suoi abitanti è stata data dal già citato Plinio il Vecchio e, nel successivo passaggio di questa esposizione, si esaminerà appunto in modo analitico la sua “Naturalis Historia”.
[1] Le tre Esperidi, chiamate Espera, Egle ed Eriteide erano figlie della Notte, secondo alcuni, ovvero di Atlante ed Esperide, secondo altri; erano note per il loro dolce canto ed abitavano nel lontano Occidente, nel giardino donato dalla Madre Terra ad Era in occasione del suo matrimonio con Zeus – v. più in dettaglio R. GRAVES, I miti greci, Euroclub, Milano, 1995, 113.
[2] L’impresa di cogliere i pomi delle Esperidi, peraltro, riuscì ad Eracle e costituì il compimento della sua undicesima fatica: v. R. GRAVES, Op. cit., 466 e segg.
[3] R. GRAVES, Op. cit., 467; Plinio il Vecchio scrive che all’interno della città africana di Lisso, posta alla foce del fiume omonimo (l’odierno Draa, nel Marocco meridionale), si riversava “un braccio di mare dal corso flessuoso” che circondava “un’isola, la sola a non essere sommersa dai flutti pur essendo la regione vicina abbastanza elevata”, su cui sorgevano i mitici giardini delle Esperidi; lo scrittore latino precisa anche che ai suoi tempi su quest’isola non restava che un altare di Ercole ed alcuni ulivi selvatici in luogo del “leggendario boschetto che produceva frutti d’oro” (PLINIO, Storia naturale, vol. I, Einaudi, Torino, 1982, 557 [Libro V, 3]).
[4] AA.VV., Grande dizionario Enciclopedico UTET, Torino, 1968, volume VI, voce “Dracena”; S. ANDREWS – J. QUINTERO, op. cit., 46.
[5] OMERO, Odissea, libro IV, vv. 702 e segg. (traduzione di Ippolito Pindemonte), reperibile al sito www.carmencovito.com.
[6] J.M. CASTELLANO GIL – F.J. MACIAS MARTIN, op. cit., 14.
[7] A. ARIES, Achille e l’invincibile scudo degli dei, HERA, Acacia Edizioni, Anno X, n. 109, Febbraio 2009, 41.
[8] ESIODO, Le opere e i giorni, vv. 169 e segg., reperibile al sito www.miti3000.it .
[9] PLINIO, Op cit., 311 [Libro II, 169].
[10] I Cartaginesi testimoni dell’inabissamento di un ultimo infuocato lembo di Atlantide?, a cura della Redazione, in Archeomisteri – I quaderni di Atlantide, Gruppo Editoriale Olimpia, Anno I, n. 5 Settembre/ Ottobre 2002, 94; Andrew COLLINS, Le porte di Atlantide, Edizioni Euroclub, Milano, 2001, 41.